Vittorio Gassman legge Dante - Commedia - Inferno, Canto XXXIII

Vittorio Gassman presenta e legge il trentatreesimo canto dell'Inferno di Dante.
Si svolge nella seconda e nella terza zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove vengono puniti rispettivamente i traditori della patria e del partito ed i traditori degli ospiti. È il pomeriggio del 9 aprile (Sabato Santo) o, secondo altri commentatori, del 26 marzo 1300.
Luogo delle riprese: Teatro "Angelo Mariani" di Sant'Agata Feltria (Provincia di Rimini)
Regia: Rubino Rubini
#VittorioGassman #Inferno #Canto33 #ConteUgolino

Пікірлер: 6

  • @brunomarra4890
    @brunomarra4890 Жыл бұрын

    Il Canto piu' Profondo e stupendo tra tutte le Cantiche.....l'Esempio piu' alto della letteratura Universale

  • @gianluigiguadagnoli1352
    @gianluigiguadagnoli1352 Жыл бұрын

    Grandioso,gonfia il cuore e riempe l'anima

  • @abdel5505
    @abdel55052 жыл бұрын

    La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’capelli del capo ch’elli avea di retro guasto. 3 Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli. 6 Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme. 9 Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand’io t’odo. 12 Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino. 15 Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; 18 però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso. 21 Breve pertugio dentro da la Muda la qual per me ha ’l titol de la fame, e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, 24 m’avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand’io feci ’l mal sonno che del futuro mi squarciò ’l velame. 27 Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ’ lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. 30 Con cagne magre, studiose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s’avea messi dinanzi da la fronte. 33 In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ’ figli, e con l’agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. 36 Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e dimandar del pane. 39 Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? 42 Già eran desti, e l’ora s’appressava che ’l cibo ne solea essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; 45 e io senti’ chiavar l’uscio di sotto a l’orribile torre; ond’io guardai nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. 48 Io non piangea, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". 51 Perciò non lacrimai né rispuos’io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l’altro sol nel mondo uscìo. 54 Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, 57 ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia di manicar, di subito levorsi 60 e disser: "Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia". 63 Queta’mi allor per non farli più tristi; lo dì e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi? 66 Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?". 69 Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, 72 già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno». 75 Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese ’l teschio misero co’denti, che furo a l’osso, come d’un can, forti. 78 Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ’l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, 81 muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogne persona! 84 Ché se ’l conte Ugolino aveva voce d’aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. 87 Innocenti facea l’età novella, novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata e li altri due che ’l canto suso appella. 90 Noi passammo oltre, là ’ve la gelata ruvidamente un’altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata. 93 Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l’ambascia; 96 ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, riempion sotto ’l ciglio tutto il coppo. 99 E avvegna che, sì come d’un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, 102 già mi parea sentire alquanto vento: per ch’io: «Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?». 105 Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà l’occhio la risposta, veggendo la cagion che ’l fiato piove». 108 E un de’ tristi de la fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli, tanto che data v’è l’ultima posta, 111 levatemi dal viso i duri veli, sì ch’io sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna, un poco, pria che ’l pianto si raggeli». 114 Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». 117 Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo; i’ son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo». 120 «Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?». Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scienza porto. 123 Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea. 126 E perché tu più volentier mi rade le ’nvetriate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l’anima trade 129 come fec’io, il corpo suo l’è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto. 132 Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l’ombra che di qua dietro mi verna. 135 Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch’el fu sì racchiuso». 138 «Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni». 141 «Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era ancor giunto Michel Zanche, 144 che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che ’l tradimento insieme con lui fece. 147 Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non gliel’apersi; e cortesia fu lui esser villano. 150 Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi? 153 Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra. 157

  • @romanacicconi6269
    @romanacicconi62692 жыл бұрын

    4:14

  • @michelemarchitelli4751
    @michelemarchitelli4751 Жыл бұрын

    MAESTRO NEL SENSO PIU' TOTALE DEL TERMINE !!!

  • @giuseppemancini2958
    @giuseppemancini2958 Жыл бұрын

    Mi spiegate quale nesso congiunge questo genio di Vittorio con il figlio Alessandro?